Tutta la pioggia che ho cantato.

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Nell’ultimo anno ho corso poco. Pochissimo.

Praticamente non ho corso.

Quindi diciamo che non è che sia proprio semplicissimo, e chi ha smesso e ripreso (e smesso e ripreso), (e smesso e ripreso) lo sa quanto i chili di troppo che si accumulano rendano difficile ripartire.

Insomma che due uscite settimanali sono state sul tragico andante, un sacco di fatica, scarso risultato, sensazione di essermi moltiplicata almeno per due per quanto riguarda il volume. Sono normopeso, ma solo per uno che non faccia attività fisica. Per un runner sono una cicciona.

Quindi, mesta mesta, mi sono rimessa a correre.

Ho fatto 4 km per due volte, questa settimana.

Rassegnata a questo nuovo standard di non prestazione, stamattina mi sono avviata per la terza volta in una settimana.

Clima nuvoloso ma non freddo. Spotify, cantautorato italiano, ché tanto vado piano piano pianissimo, e via.

Solo che poi ha iniziato a piovere.

Il mio cappellino di Los Angeles non l’ha presa un granché bene, non è abituato allo pioggia. Ma io, oh. Io amo la pioggia quando corro.

Non la sopporto in ogni altra occasione, ma quando è delicata ed elegante e io sto correndo nella mia amata Valle, oh. Che meraviglia.

Peccato non fosse previsto dal mio abbigliamento.

Va be’, tanto tra poco mi giro e torno indietro.

(Ma il cielo è serenare più blu) Finisco la canzone, dai, poi mi giro e torno indietro.

(Avrai, avrai, avrai) Ancora una.

(e al centesimo catenaccio, alla sera mi sento uno straccio, per fortuna che al braccio speciale c’è un uomo geniale che parla con me) Ancora una.

Uh!, guarda, un uccellino che fa il bagno nella pozzanghera!

(Sparagli Piero, sparagli ora) Va be’, a questo punto arrivo fino a là.

(Notte prima degli esami) A questo punto ne faccio un altro.

(Nino non aver paura) No va be’, questa è troppo bella! Appena finisce però… (vedi cara, è difficile spiegare)

Insomma.

Me le sono cantate tutte, nella pioggia, salutando cigni, persone, cani, merli, rane, passerotti.

Alla fine ne ho fatti 10. Mettendoci 20 minuti in più di quanto ci avrei messo due anni e 5 kg fa, ma, cazzo che bello.

Chiedimi se sono un giaggiolo.

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Mi vedete ricominciata?

No, perché io un po’ mi ci sento.

Sarà che manca pococosì alla primavera ma mi sento ricominciata. Come un giaggiolo.

Ho googlato, non avevo idea che la parola “giaggiolo” corrispondesse a quel fiore lì. Ma ci pensi? Una vita a cercare di spiegare un fiore e poi si chiama “giaggiolo”. Credevo fosse un fiore a palla, quelli tipo crisantemo  (- googla “crisantemo” e poi muorAh. NO.-).

Quello lì l’ho sempre chiamato iris. Chissà che mi credevo. (E, infatti. Ma non mi rovinare il post).

Insomma, sono un giaggiolo. In qualche modo l’immagine che ho di me non corrisponde mai alla descrizione che me ne fanno. O comunque faccio fatica a sovrapporle (e finisce che chiamo giaggiolo un fiore immaginario che assomiglia al crisantemo).

E’ l’annoso problema del sapersi vedere. Del sapere chi si è. Del vedersi con gli occhi degli altri. Per cosa, poi?

Al giaggiolo mica interessa di chiamarsi giaggiolo. Potrebbe chiamarsi in qualsiasi altro modo e non gli importerebbe, crescerebbe lo stesso, sboccerebbe allo stesso modo anche se tutti lo chiamassero crisantemo. Mai saputo di giaggioli con crisi di identità.

Oppure di giaggioli invidiosi. “Come vorrei avere le foglie del crisantemo!”, “Hai visto quel crisantemo tutto scollato? Ma non si vergogna?”

Magari giaggioli pensierosi, quello sì. “Che faccio sboccio? Ma come sboccio? Da che parte è il sole? Così sboccio di lì” ma più di questo non so. Il giaggiolo sa che deve crescere e sbocciare e poi ritirarsi ai consigli dell’inverno, e quello fa. E mica gli importa di come lo chiami.

E allora perché a noi importa?

Perché ci fa innervosire che ci prendano per un crisantemo se ci sentiamo giaggioli?

E se ci sentissimo giaggioli e invece scoprissimo di essere crisantemi?

La verità, cari giaggioli, è che ci facciamo un sacco di problemi inutili.

Certo, il consiglio esterno è importante nei momenti di conforto e smarrimento, ma con tutti questi giaggioli che vogliono fare i crisantemi pare che se non sei un crisantemo non sei praticamente nemmeno un fiore, pussa via!

E allora tutti a fare i crisantemi, sei più crisantemo di lui, non sei più il crisantemo di una volta, guarda che quello lì, secondo me, se la tira tanto ma in fondo è solo un giaggiolo. (So’ spietati ‘sto crisantemi, eh), guarda che pezzo di crisantemo, sarà figlio di un crisantemo per bene, ma guarda ‘sto figlio di un giaggiolo!

E cosa ci sarebbe di tanto male ad essere un giaggiolo? E di tanto figo nell’essere un crisantemo?

Niente.

Assolutamente niente.

Vedete, un giaggiolo che viva da giaggiolo è meraviglioso. Quando incontra un crisantemo, lo deve trattare da crisantemo.

Cioè? come un altro fiore, diverso da sé. Ma sempre un fiore.

I crisantemi magari se la tirano un po’ ma perché hanno un sacco paura di non essere visti, anni ad usarli per i funerali hanno nuociuto alla loro autostima e ora cercano di rifarsi, ma sono solo tanto impauriti di non essere notati.

Ma che siano meglio o peggio dei giaggioli chi lo stabilisce? Di certo non un giaggiolo.

Non può. Il giaggiolo può solo crescere, sbocciare al meglio delle sue possibilità e poi, dato tutto, andare, con grazia. Anche se lo chiamano crisantemo. Anche se gli dovessero dire “non sei nemmeno un fiore”. Anche se tutto il mondo decidesse che il giaggiolo è un fiore bruttissimo. Non importa, giaggioli. Sbocciamo. Al meglio delle nostre possibilità.

 

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I (ri)walk the line.

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I (ri)walk the line.

Santo cielo, povero blog abbandonato.

E povera corsa abbandonata. Ma che ci fa una che non corre e non scrive con un blog sulla corsa? Niente, il blog si chiama “corri e zitto” ed io sono stata zitta.

(Bel tentativo, Ida. Ma solo un tentativo).

Quindi, ancora qui.

Questo è un piccolo regalo per me, che sono sempre a ricominciare.

Oh, come mi piace ricominciare! Quel retrogusto di rinascita di ogni nuovo inizio. Quel sottile piacere del sapere già e del vedere dettagli ancora nuovi, nonostante le precedenti 2000 volte in cui… Quel sorriso che fa capolino, lì, appena girato il primo angolo, il primo paragrafo.

Tre, quattro falcate.

Cinque, sei righe.

Rieccoti. Frullata, cambiata, invecchiata, rinata. Mai davvero lontana, mai davvero dimenticata. Solo un po’ sfocata, forse.

 

Come amo ricominciare.

Quella sensazione da dopo tempesta, quell’amico ritrovato, quella canzone che non sentivi da dieci anni, quel profumo che ricorda la nonna – gran donna -. Quel salutare ogni filo d’erba che incontri, ogni tasto, ogni lettera (l’ho già usata la Z? Ciao, Z, mi sei mancata), quel sentirsi a casa, reduce da chissà quale viaggio organizzato finito disorganizzativamente (che forse come parola non esiste ma, chissenefrega, sono a casa!), ancora qui, ancora una volta a ritrovarsi, quel guardarsi allo specchio dopo giorni e ricordarsi che si esiste, magari male, ma esisti.

E forse ricomincio. Con molto meno tempo, con molti (5) chili di troppo, con due consapevolezza in più e qualche senso di colpa in meno. Ricomincio a piccole falcate, leggere, senza tempo, a piccole parole, magri contenuti, scarsa revisione. Ricomincio per me, che ogni tanto esco dal mio sentiero e mi ritrovo a correre alla velocità di qualcun altro, non certo la mia, e poi mi fermo, secca, a chiedermi cosa diavolo ci faccia lì, fuori dal mio seminato, con l’aria di chi abbia avuto una fuga dissociativa, più che altro.

 

I walk the line, Johnny Cash  >>>   https://youtu.be/KHF9itPLUo4

Non è musica per correre.

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IMG_20150904_100751Oggi prima corsetta dell’anno e ne ho approfittato per ripassare un po’ i miei dogmi.

Non corro quasi mai con la musica ma oggi non avevo proprio voglia di correre (eccheccazzo, diciamolo) e allora ho pensato che magari avrei potuto zompettare a suon di musica, senza troppo impegno, treccine e abbigliamento scoordinato, con qualcoosa di seriamente imbarazzante, tipo la fascia giallo fluo per le orecchie della Decathlon (non “tipo”, esattamente quella).

E quindi, niente, ecco la mia playlist (non tutta, eh) che mi ha fatto compagnia oggi.

Non l’ho scelta, metto sempre la riproduzione casuale, e le riporto a memoria, non nell’ordine giusto in cui le ho ascoltate.

Max Gazzé  – La vita com’è [questa perché questo straccio di vita com’è, non la faccio finita ma incrocio le dita e mi bevo un caffé]

Queen – A kind of magic [questa perché schiocco inevitabilmente le dita, anche mentre corro]

Hozier – Take me to church [questa perché cruccio tantissimo l’arco sopraccigliare e sembro davvero dannata]

Guccini – Lettera [questa perché Chi aspetta sempre l’inverno per desiderare una nuova estate]

Guccini – Canzone di notte n. 2 [questa perché Scusate, non mi lego a questa schiera: morrò pecora nera!]

F. De André – Un chimico [Questa perché Primavera non bussa, lei entra sicura]

Guccini – 100, Pensylvania ave [questa perché Un po’ più vecchia, ma quasi per gioco]

F. De André  – Il testamento di Tito [questa perché è il mio credo]

F. Battiato – Insieme a te non ci sto più [questa perché guardo le nuvole lassù]

F. De André – fiume sand creek [questa perché sognai talmente forte che mi uscì sangue dal naso]

AC/DC – Back in Black [questa perchè stringo gli occhi e sembro davvero cattivissima]

Queen- Don’t stop me now [questa ‘cause I’m having a good time, having a good time]

F. Guccini – Quello che non [la pallida linea di vecchie ferite]

The doors – People are strange [questa perché no one remember your name, che è molto autobiografico, nel senso che non me ne ricordo mai uno]

#scusatesonounacretina

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#scusatesonounacretina

Va bene, va bene, va bene.

Uno se ha un blog e ha un blog che pretende di parlare di corsa dovrebbe, quantomeno, correre e scrivere.

Solo che non sempre si può correre e scrivere.

Tipo.

Oggi posso scrivere perché sono bloccata in casa da una simpaticissima bronchite asmatica che, ovviamente, mi impedisce di correre.

Diciamo che forse ci voleva, eh. Un po’ di riposo, dico. E un po’ di cortisone.

Il fatto è che il cortisone, l’altra notte, non mi ha fatta proprio correre, ma ha fatto molto correre i miei pensieri che si sono raggomitolati sotto al cuscino e hanno fatto un rumore pazzesco, da non farmi dormire.

Erano per lo più pensieri legati al passato.

Il passatissimo ed il passato un po’ più recente.

Persone a cui dovrei delle scuse. Persone che ne dovrebbero a me ma in fondo non le voglio nemmeno, perché se c’è una cosa in cui sono un talento vero è la dissociazione e stabilire senza possibilità di replica quando una cosa non mi riguardi più.

E un po’ di futuro. Futuro futurino, tipo domani e dopodomani, perché sono in una fase della mia vita pazzesca, che nemmeno nei miei più coraggiosi film mentali.

E tutti i grazie che dovrei, che devo (e in questo non mi voglio dissociare proprio per niente) e che non speravo di poter desiderare dire nella mia vita, perché quando uno è abituato a procedere a suon di “scusi, permesso” mica se lo immagina un mondo fatto di “davvero?! Grazie!”.

E poi pensavo al Passato per eccellenza, quello in cui ad un certo punto ho dovuto alzare bandiera bianca e da ammettere che, no, non stavo ragionando più ed era necessario che qualcun altro decidesse per me (questa, signori, è onestà intellettuale).

E pensavo a come ci sia finita ad essere così “vergognosamente felice”. A quel momento, durato forse due secondi, in cui mi sono concessa di essere qualcun altro.

Qualcuno di diverso da chi mi aspettavo. Qualcuno che non avrebbe più usato la forza, ma si sarebbe fatta cullare dal momento.

Qualcuno che guardandosi allo specchio avrebbe smesso di criticarsi per tutte quelle cagate al femminile, ma avrebbe guardato con simpatia a quella poveretta che, di riffa o di raffa, è comunque sopravvissuta, e la avrebbe perdonata e canzonata, sì, ma con un affetto nuovo, più onesto, meno pretenzioso.

 

Fondamentalmente è così che sono diventata una cretina. Felice.

Ho iniziato a trovarmi simpatica.

In fondo, cosa pretendevo da questa piccola me, residente tra Scilla e Cariddi per buona parte della sua vita, sempre intenta a lottare, a difendersi? Cosa potevo farci se non avevo avuto ciò che ci si aspetti abbiano i bambini normali, gli adolescenti medi, i giovani adulti compensati? Cosa ci potevo fare se ero nata sfigata? Se a 4 anni dovevo pettinarmi da sola (ne ho 34 e non ho ancora imparato), se non c’erano mai le condizioni per condividere qualcosa di piacevole, se ho sempre dovuto pretendere e urlare e impormi per avere il minimo necessario?

Povera me, ho pensato. Ma mi sono guardata e mi è venuto da ridere.

Pacca sulla spalla, sorriso ed un selfie cretino. E ho riso.

Ciao, questa sono io. Sono proprio una cretina, e non ho intenzione di diventare altri che me.

Vado bene così. Alla fine ho già fatto 3 volte l’impossibile. Non sono diventata psicotica. Non provo invidia. Ogni tanto ho qualche tratto paranoico, ma sfido, io.

Ho guardato in faccia la Fine in più di un’occasione.

Ma sono sopravvissuta e ne è valsa la pena (anche se non lo potevo sapere, allora).

Non ho saputo cosa fosse la tenerezza per almeno tre decenni per poi vedermela scoppiare attorno in ogni sua forma e non volerne fare più a meno.

Non ho capito cosa fosse la compassione per la quasi totalità della mia vita, per poi desiderare provarla nei confronti di tutti quelli che, come me, per troppo tempo le hanno dato solo un’accezione negativa.

Non ho capito la condivisione e la cooperazione perché non ho mai avuto altro che quel poco che riuscivo a strappare con tutte le mie forze con la disperazione di chi lotti per la sopravvivenza, e ora che vivo non desidero altro che donare e condividere.

Niente può portarmi vicino alla Fine quanto feci io, quindi tutto è superabile. Tutto passa. Tutto insegna. Nessuno può ferirmi. E chi vuole ferirmi non è contemplato nell’economia della mia vita.

Il Peggio sta  sicuramente alle mie spalle. E anche in questo mi sento fortunata. In pochi possono dirlo con certezza.

Cosa può fare il cortisone, eh?

Da settimana prossima sarò un’altra. Lo sono già. Da quella successiva un’altra ancora. E anche quella lo sono già. Perché c’è chi si costruisce e chi invece rivela parti di sé, autentiche.

E finché posso provare tenerezza, compassione, voglia di condivisione per me, per gli altri, per i gatti, ecco, allora sono felice.

Finché riesco a vedere quanto sono stupida, a non cedere al rancore (semicit.), a stare dalla parte dei buoni e non dei vincitori, ecco, io sono felice.

Finché posso seguire il mio monologo interiore e concludere che comunque, magari sono una sfigata, ma non sono una stronza, ecco, io sono felice.

Finché non desidero essere migliore di qualcuno ma imparare da quel qualcuno, ecco, io sono felice.

Finché so preservare e proteggere, ecco, io sono felice.

Finché non desidero vincere ma avere persone da cui imparare, ecco, io sono felice.

Finché riesco a fare in modo che i miei comportamenti seguano i miei valori, e i miei soltanto, e non seguano logiche becere e  senza cuore, votate solo all’interesse, ecco, io sono felice.

E mi do della cretina, perché di certo non assomiglio minimamente a chi credevo di voler diventare, ma cazzo se sono contenta di non esserci riuscita a diventare quella brutta stronza arrogante invidiosa e rancorosa che, nella mia testa, era il top dei top dei desiderabilia.

Ciao, stronzi.

Io sono felice.

 

 

Risparmiare sul sociale non è risparmiare.

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Quanto accaduto nella comunità di Busto Arsizio, la violenza ai danni di un operatore da parte di quattro utenti, tutti italiani, tutti minorenni, ci insegna un sacco di cose.

Un sacco di cose che, chi lavora nell’ambiente, già sa.

Chi lavora nelle comunità educative per minori sa che dovrà fare i turni di notte e sa che li farà da solo.

Non gli sta bene. Non sceglie di farlo. È che funziona così. Funziona così in Lombardia. 

Arrivano echi lontani che, forse, in regioni illuminate come l’Emilia, sia leggermente diverso, ma non posso dirlo perché non lo so.

Insomma. 

Il personale educativo presente in struttura è uno.

Al di là del numero degli utenti.

Quindi rimane da solo, con 10/12 minorenni che in teoria dormono.

Non stiamo parlando di orfanotrofi, di stanze con 12 letti uguali, punizioni corporali e privazione di cibo.

Parliamo di Busto Arsizio, Varese, Lombardia, camerette da 2/3 letti, personale laureato e signora delle pulizie che arriva al mattino ed è tanto simpatica, mette su anche il caffè.

Parliamo di contratto nazionale dei lavoratori.

Insomma, alle 22:00 il collega se ne va e rimani tu, coi tuoi pargoli.

Bambini e ragazzini collocati in comunità dal Tribunale per i Minorenni, quello che stabilisce se mamma e papà sono in grado di svolgere il loro compito genitoriale, quello che affida il minore ai servizi sociali affinché gli trovino una collocazione idonea (per intenderci, una in cui non venga malmenato in base alla qualità di alcool ingerito o in cui, banalmente ma non troppo, gli sia concesso di andare a scuola o far parte di una squadra di calcio).

Sono bambini e ragazzi cresciuti in contesti socio-culturali particolarmente poveri, bambini e ragazzi che hanno imparato a darle ma, di più, a prenderle.

Persone che non sanno il valore della vita, della libertà individuale, che non hanno sviluppato capacità empatiche e per cui l’Altro è, nella migliore delle ipotesi, un fastidio da sopportare (perché loro si sentono un fastidio da sopportare).

L’ente colloca questi ragazzini deprivati in contesti comunitari, che li accolgono e, come mandato, cercano di colmare le enormi lacune lasciate da genitori che non sono stati in grado (per moltissimi motivi differenti) di preservare i loro figli dalle proprie difficoltà.

Ecco.

I fatti di Busto ci dicono che stiamo sbagliando.

Se quattro ragazzini concordano quello che hanno agito, il sistema educativo ha fallito.

Ma non ha fallito quello di tal comunità, no.

Ha fallito tutto. A partire dalla superficialità con cui vengono a volte fatti gli inserimenti in comunità, dettati più dal numero che da un reale pensiero educativo, dalla reale idoneità del contesto, al fatto che si investa troppo poco sulla continuità educativa (se gli operatori cambiano in continuazione, come si fa a guarire la ferita relazionale di questi ragazzi? Come stabiloscono un rapporto di fiducia con un adulto? Dove lo trovano il famoso punto di riferimento, la base sicura?), al fatto che chi oggi ha sentito la notizia si sia chiesto perché venga lasciata una ragazza da sola in comunità di notte.

Noi che ci lavoriamo quasi sorridiamo.

Ne abbiamo viste tante.

E sappiamo che le circostanze di Busto sono quelle in cui ci siamo trovati anche noi tante volte.  E magari non c’è stato lo stupro di gruppo ma pestaggi e angherie varie sì, molte.

E allora facciamo che serva a qualcosa, questa storia.

Serva a smettere di tagliare i fondi per il sociale.

Serva a sensibilizzare chi col sociale non ha mai avuto a che fare.

Serva a quelli che pensano che i soldi per il sociale vengano messi in tasca da non si capisce bene chi, forse dai “i servizi sociali che rubano i bambini e li mettono in comunità per niente”.

Risparmiare sul sociale non è risparmiare.

Risparmiare sul sociale è avere poco personale, stanco o poco formato (la paga è ridicola, sia per responsabilità che per formazione, persone laureate che hanno la responsabilità di questi ragazzi e che percepiscono all’incirca 7 euro all’ora), avere luoghi non adatti, troppi ragazzi in una sola struttura, ché poi si annoiano e fanno branco, cercare una struttura che costi meno di un’altra, non fornire supporto psicoterapeutico agli utenti e un’adeguata supervisione agli operatori.

Vuol dire che invece di pagare un operatore in più, ora i contribuenti pagheranno le indagini, le spese processuali,il risarcimento morale, l’incarcerazione, il percorso riabilitativo (che porterà al successivo arresto), le altre comunità, eccetera, eccetera, eccetera.

Riaparmiare sul sociale non è risparmiare

Investire sul sociale è risparmiare

[Il presente post non vuole esaurire l’argomento né dare risposte. Vuole solo sollevare domande]

Nobel per la Pace.

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Nobel per la Pace.

Abbiamo questa cosa, io e la mia amica, di dire che salveremo il mondo.

Un po’ presuntuoso, vero, ma chi è stato sull’orlo del baratro, ha anche saltato e poi si è salvato, un po’ presuntuoso lo diventa, è inevitabile.

La cosa figa è che noi, il mondo, lo vogliamo salvare davvero. Non lo vogliamo comandare, non aspiriamo a fama o potere, non cadiamo nelle reti della vanagloria.

Noi vogliamo che il mondo stia bene.

Tutto.

Desideriamo il maggior numero possibile di persone felici.

Perché, in un mondo di persone felici, ricordatelo, non ci sarebbero rompicoglioni.
[Nessun rompicoglioni è stato reso felice per la stesura di questo post]

Non mi like.

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Non mi like.

Stavo qui a sistemar cose e a ripensare alla bella giornata trascorsa ieri, e ad alcuni altri fatti che mi sono balzati all’occhio di recente.

Sistemavo, riordinavo e mi facevo delle domande a cui è giunta da qualche parte dentro di me la risposta, limpida, senza possibilità di repliche: noi chiediamo troppo poco alla vita.

Come può essere che ci solletichi l’Ego così tanto ricevere una manciata di cuori/like sul social di turno?

Com’è possibile che l’aspirazione della giornata sia venire bene nel selfie, farsi fighi per venire bene nel selfie, come se i like confermassero la nostra reale avvenenza (non lo fanno, confermano solo che la gente passa un sacco di tempo sui social, al limite che ci è venuto bene uno scatto e/o abbiamo scelto un buon filtro, ma mica confermano che siamo belli), come se fosse davvero importante?

Oppure aspiriamo ad un paio di belle scarpe, o ci sbattiamo di brutto per avere un ventre scolpito, o una buona abbronzatura o correre di più e più veloce.

Ore e ore spese per apparire meglio, migliori di quello che siamo o comunque migliori di quella stronzachemiodiopropriononlasopporto.

Energia e tempo dedicati ad avere 100 euro in più in busta paga oppure tutti tesi per arrivare alla birretta del venerdì, oppure al “questa sera mi sfascio ché domani non si lavora”.

Cazzo.

Chiediamo proprio poco alla vita.

Magari non a lungo termine ma nel quotidiano sì.

Per questo poi le avversità ci sbattono a terra.

Se per sentirci fighi bastano una manciata di like dal dottor Pacciani di turno, aumentare di mezzo kg è un dramma pazzesco.

Se per sentirsi migliori basta scendere di una manciata di secondi rispetto al nostro tempo migliore, essere superati da uno vestito nondarunnerverovero è un problema.

Se per non sentirci soli o disperati basta avere un buon selfie con gli amici, due follower in meno ci fanno scattare la crisi da abbandono.

Chiediamo davvero poco alla vita.

Che è lì, a mani aperte e traboccanti di possibilità, alternative, emozioni positive, serotonina.

È lì, e può portarci ovunque, darci la possibilità di realizzare desideri, nostri ed altrui, con quotidiane occasioni di incontrare l’Altro ed aiutarlo, occasioni non per sentirsi migliori, apparirlo, ma proprio occasioni per esserlo, migliori.

Centinaia di nuovi sentieri tampestati di microoccasioni di felicità, di serenità e soddisfazione, sentieri in cui non si corre spingendo al limite le proprie possibilità per pubblicarlo sui social, ma sentieri adatti al tuo passo personale, per quella specifica fase di vita che stai attraversando.

Possibilità di scendere nel profondo, di conoscere le proprie paure vere, di imparare il linguaggio emotivo del nostro corpo, di ascoltare i desideri più profondi, di trovare le ferite più grandi per lenirle, occasioni preziose di comprensione delle emozioni dell’Altro, del riconoscimento dell’Altro, situazioni in cui ti accorgi che la condivisione (non da social) può essere vitale per qualcuno.

E invece noi, no.

Noi contiamo i like.

Running therapy

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Running therapy

Oggi ho fatto della running therapy. Che non è la terapia di corsa ma la corsa terapeutica.

Che correre faccia bene si sa, quindi niente smaronamenti [termine tecnico] a riguardo.

Ultimamente le mi corse sono diminuite e io sono diventata più pesante e allora, nel beato circolo vizioso conosciuto ai più, per un pochetto ho corso poco e di fretta.

Oggi, però, non solo avevo tempo ma anche energie. [questo perché la mia amica @aPIcult ha sempre delle idee grandiose e felici, tipo quella di ricominciare ad assumere il magnesio -comediavolohofattoadimenticarlo?!]

Quindi mi sono caricata di acqua e mi sono detta: “Andiamo, maledetti grassi: vi rimando da dove siete venuti” con aria cattiva e anche un po’ mentendo, perché mica venivano da dove stavo andando io, ma loro tanto che ne sanno?

 

Ad ogni modo.

Chi corre lo sa, mentre corri, se lo fai per stare bene [#runforhealth suona male e sembra #corrosenohogliacciacchi, #corroperchémelohadettoilmedicocheètantounbravuomo, ma non è proprio quella roba lì] succedono tutte delle cose per cui, di fatto, riesci a mettere in ordine i pensieri, trovi soluzioni, scarti problemi non realmente tuoi e via discorrendo, perché, si diceva in altri post, bisogna correre leggeri e il ciarpame [altro termine tecnico] va scaricato cammin facendo.

Bene. Stamattina ho scaricato un sacco di ciarpame.

E, ancora meglio, ho inspirato un sacco di bene.

Intanto ho realizzato che chi mi dà tanto fastidio probabilmente sta molto male.

Lo sapevo già, ma oggi mi è dispiaciuto. Mi dispiace che stiano male. Ma mi dispiace davvero e ho augurato loro che passi presto, perché star bene, anche passando attraverso il male, si può. Se ne può uscire dalla sofferenza, che, scoprii io correndo, non è obbligatoria.

Inoltre, cara la mia autrice del post, se qualcuno ti dà fastidio in realtà il fastidio è tutto tuo.

Quindi, pensavo correndo, smettere di essere infastiditi è un processo del tutto autoreferenziale, che non necessita che gli altri smettano alcunché.

Oltretutto, pensavo sempre correndo, chissà a quante persone ho dato fastidio io senza nemmeno rendermene conto.

Oh, beh. Ogni tanto me ne sono accorta, eh.

Ma magari molte volte no.

Tipo: ho scoperto di recente, lamentandomi con mio fratello di una persona che, presumibilmente senza rendersene nemmeno tanto conto, tende, diciamo così, a prendere spunto da cose mie, che il suddetto fratello ha passato una vita intera con [cito] “una più piccola che voleva fare tutto quello che facevo io. Sì, è fastidioso. Ma in fondo ti dice che come sei piace e va bene, funziona.”

La cosetta piccola e fastidiosa che lo imitava sono io.

E non ho potuto dire altro se non “eh, ma a me sembrava tutto così figo!” omettendo tutte le volte in cui la frustrazione ha superato la figaggine.

Perché, per quanto io sia cresciuta al suono roboante interno del “se lo fa lui magari posso farlo anch’io”, senza mai minimamente considerare il fatto che lui fosse maschio [e, a quasi 34 anni mi tocca ammetterlo: sì, cambia essere maschi o femmine] e più grande e, semplicemente, un’altra persona [diversa da me, con altre qualità ed altre difficoltà] mica sempre sono riuscita a “fare come” o a “fare meglio”.

E che mi piaccia o no, questo mi ha frustrata un sacco.

E quindi, ricordandomi di ciò e mettendo insieme i pezzi ho pensato: “oh, mio Dio, io sto qui a fare l’infastidita e, invece, di là si soffre tantissimo! Toh, prendi tutti i pezzi miei che vuoi, se ti servono. Davvero. Me ne farò altri, nel caso”.

Insomma, ho pensato che essere passati nelle sofferenze non serva proprio a niente se non le si utilizzano per comprendere ed aiutare quelle degli altri. A cosa serve stare male se non riusciamo a farne qualcosa di bello? Se non riusciamo a perdonare agli altri la sofferenza?

[“nella pietà che non cede al rancore”, @ida_bauer_, ricordatelo sempre]

Insomma, sono tornata dalla corsa felice, omettendo i tempi e mettendo l’accento sulle calorie perché, in fondo, mica si può avere sempre tutto da una corsa.

O sì?

Chiedimi se è maggio.

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Sono sempre di fretta.
Ho sempre i minuti contati.
Non riesco a dedicarmi con attenzione ad alcune cose perché ho già la testa all’impegno successivo.
So sempre più o meno che ore siano e guido spesso oltre il limite perché so che, altrimenti, quei 45 secondi che risparmio andando veloce, mi macheranno e mi toccherà accelerare il passo più tardi.

Negli ultimi giorni non sto andando a correre perché farei di fretta anche quello.
Non “in fretta”. “Di fretta”, è diverso.

Sono in piedi dalle 6:30, ho mangiato in piedi e mi sono seduta solo per espletare le funzioni fisiologiche.
Sono stata al pc, in piedi, come se funzionasse più velocemente così.

Fretta, fretta, fretta.

“Esco 12 minuti prima, così riesco a fare anche quell’altra cosa intanto che sono lì” e “la chiamo mentre sono in macchina”.
E poi?

E poi, cazzo.

Il posto in cui sarei dovuta andare “prima di” è chiuso.

Senza possibilità di replica.
Chiuso fino alle 19.

Immediatamente lista delle cose da fare per ottimizzare il tempo risparmiato, idee velleitarie sui tempi per tornare a casa e poi andare dove devo, capriole, denti serrati, respiro corto, to do list impazzita e, lì, succede: i tavolini fuori dal bar.

Sole, un ombrellone, l’odore del caffè.

Quanto cavolo di tempo fa l’ho fatto l’ultima volta?

Seduta. Occhiale da sole. Caffè.
44 minuti in anticipo. 44 minuti liberi. (7 per scrivere questo post)

Maggio, ti adoro.
È giusto che tu lo sappia.